IL BANCO

Correva l'anno 1976. Io e una parte della mia famiglia ci eravamo trasferiti a Roma da pochi mesi e quel giorno di ottobre, che non dimenticherò mai, ho fatto ingresso per la prima volta in quella che sarebbe stata, per i successivi tre anni, la mia scuola:  l'Istituto Tecnico Femminile. Il liceo più inutile della terra.
Mi ricordo perfettamente di aver aperto la porta della classe e di aver detto: "Buongiorno, io sono Daniela d'Urso" e una voce, proveniente dal primo banco accanto alla finestra, ha risposto "E 'sti cazzi".
Ecco. Questo è stato l'incontro fra me ed Elena. Un' antipatia al primo sguardo, di quelle che difficilmente passa o diventa qualcos'altro, così com'è stato per tutti e tre gli anni di condivisione della classe.
Elena era una ragazza bella, sfrontata, sicura di sè, cosciente del fascino che i suoi occhi azzurri esercitavano sugli altri, uomini o donne che fossero. 
Non era una gran secchiona, ma aveva comunque preso possesso  del primo banco, perchè la sua natura di leader non le avrebbe permesso altro. Sapeva come avvicinare le persone a sè, nello stesso modo in cui sapeva allontanarle. La classe era il suo palcoscenico e lei sapeva tenere la scena come poche. Con la sua risata riconoscibile, contagiosa, sapeva essere scostante e cazzeggiona nello stesso modo. E mentre io ero quella sensibile, la nuova arrivata sempre un pò fuori contesto e un pò a disagio, lei era quella che dettava silenziosamente le regole del sano protagonismo di chi si piace.
Se devo essere onesta, pur non essendo una persona invidiosa, forse di Elena un pò lo sono stata. E non perchè volessi essere al suo posto, ma perchè mi sarebbe piaciuto saper affrontare la vita con la sua simpatica irriverenza; mi sarebbe piaciuto avere il posto nel banco accanto a lei, per poter imparare ad indossare un'impertinente faccia tosta come la sua, che mi servisse da scudo per quello che avrei dovuto affrontare una volta uscita fuori, nel mondo, da sola.
Dopo la maturità, naturalmente, io ed Elena abbiamo accuratamente  evitato anche solo di pensare l'una all'altra. Per trent'anni. Finchè, anni fa, grazie a facebook ci siamo riviste. 
Elena è entrata a casa mia, con un mazzo di fiori in mano, ci siamo abbracciate e, dopo un caffè e un paio di reciproci complimenti, di quelli che solo le donne intelligenti sanno fare, abbiamo cominciato a cazzeggiare, in un modo così piacevolmente inaspettato, che non riuscivamo a smettere di ridere; come due che, insieme, non avevano mai fatto altro nella vita. Era come vedere le donne che eravamo diventate prendersi gioco delle ragazze che eravamo state. Quelle ragazze che avevano sprecato l'occasione di diventare compagne di banco e amiche.
Lo siamo diventate quel giorno. Molto. Inaspettatamente. In totale assenza di un passato, ma con la tangibile certezza di un futuro.
Sono passati dieci anni da allora. Dieci anni in cui io ed Elena abbiamo attraversato tante strade, parallele o convergenti. Ci siamo fermate a tanti incroci pericolosi, a volte abbiamo scelto di farci investire, a volte abbiamo chiesto aiuto per farci portare in salvo. E ci vogliamo bene. Ce ne vogliamo anche quando non abbiamo voglia di sentirci o vederci; anche quando non pensiamo l'una all'altra, sappiamo di volerci bene. 
Ho sempre pensato che Elena sarebbe diventata una persona importante, sfruttando al meglio la sua fisicità, la sua forza di seduzione, la sua audacia. E invece no. Elena ha scelto di fare l'infermiera, diventando molto più importante di tante persone importanti. Elena ha scelto di aiutare gli altri. Ha scelto di affrontare ogni giorno sofferenza, disperazione, paura, speranza. Elena ha scelto una forma d'amore che possiede solo chi ha un cuore grande quanto il mondo. Come il suo, che, un giorno di dieci anni fa, è entrato in casa mia, con un mazzo di fiori colorati in mano e mi ha fatto posto nel banco accanto a lui.





























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