IAIO

Come è ormai noto, noi d'Urso siamo in sei. Quattro femmine e due maschi. Alessandro è il maggiore dei miei due fratelli. Ha cinque anni meno di me anche se, ogni tanto, le nostre età sono state intercambiabili. Quando mia madre è rimasta incinta di lui la malattia che aveva si è fermata. Per nove mesi, per poi riesplodere in tutta la sua devastazione. Quando è morta, mio fratello aveva solo tre anni. E, automaticamente, senza che nè io nè lui potessimo averne la benchè minima consapevolezza, abbiamo scelto di prenderci cura l'una dell'altro.
Non mi ricordo di Ale come un bambino particolarmente capriccioso. Ma  piuttosto come un bimbo curioso, in costante attesa di qualcosa che gli desse ciò di cui  ogni bambino ha bisogno e ha diritto, serenità, sorrisi, carezze, amore.
Non mi ricordo neanche che sia mai stato mai geloso dei fratelli nati subito dopo; quasi fosse sollevato, perchè nessuno avrebbe potuto prendere il suo posto; probabilmente consapevole di essere stato il più piccolo, senza essere stato il cocco di nessuno.
Però mi ricordo che era il mio compagno di giochi preferito;  mi ricordo la  stanza con la moquette azzurra; mi ricordo che diventava il nostro mare quando io ero la pescatrice di perle e lui Iaio, il mio compagno di avventura. E mi ricordo, soprattutto, il bisogno l'uno dell'altra; un bisogno istintivo, viscerale, irrinunciabile.
Io ho scelto di non avere figli. Non ne ho mai avuto il desiderio, se non in un paio di occasioni, che sono troppo poche per affrontare una responsabilità così grande. Credo di aver considerato e vissuto Alessandro, più che come un fratello, come un figlio. Da subito, da quando mi ricordo di lui. Probabilmente la mia grande tenerezza e il mio ancor più grande istinto di protezione, sono sempre stati un tenue surrogato dell'istinto materno. Non lo so. E non mi è mai importato saperlo o analizzarlo più di tanto, perchè è stato talmente presente ed importante, che racchiuderlo in una definizione sarebbe un insulto.
Ne abbiamo passate tante io e Ale. Le nostre menti, i nostri cuori, le nostre identità ne hanno passate tante. Abbiamo vissuto insieme per tanti anni. In tanti posti. Siamo passati attraverso tutte le mancanze del mondo, dividendoci tempi, spazi e istinti di sopravvivenza. Abbiamo condiviso rabbia, dolore, senso di impotenza. Ma anche tenacia, speranza, forza. Ci siamo sostenuti tanto; ci siamo allontanati poco e senza mai farlo davvero. Ci siamo sempre stati l'uno per l'altra, anche quando abbiamo litigato furiosamente. Lui  è l'unico che conosce bene la sindrome da abbandono. L'ha  vissuta sulla sua pelle e sa quanto può far male. E sa anche quanto mi è costato non farmi vedere troppo disperata, troppo abbandonata,  quando ha deciso di trasferirsi. Perchè sa che il rispetto che ho avuto ed ho per il coraggio delle sue scelte di vita, è troppo più forte del mio senso dell'abbandono.
Adesso, quando penso a lui, vedo un bambino, un adolescente, un uomo che guarda la foto di sua madre e vede un viso identico al suo, senza sapere chi sia e senza avere la meravigliosa consapevolezza della vita che si sono donati a vicenda.
Quando penso a lui, vedo un bambino, un adolescente, un uomo che aveva tutti gli alibi a disposizione per mischiarsi alla bruttezza del mondo e che invece ha scelto di diventare la bella persona che è. Quando penso a lui, vedo un ottimo padre, che non farà mai pagare a suo figlio il prezzo dei propri errori, ma che gli insegnerà come, agli inevitabili sbagli, si può rimediare, anche solo chiedendo scusa. Quando penso a lui, vedo il meraviglioso artista che è.
In ogni foto riconosco il suo talento. In ogni foto, riconosco la sua sensibilità, il suo senso di umanità. In ogni foto riconosco il mio orgoglio per esserci stata. Per aver contribuito alla sua vita. Poco, tanto, non importa, perchè ci sono cose che vanno oltre il dna.  Ci sono io e c'è lui.  Mio fratello. Mio figlio. Iaio.




































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