Qualche giorno fa camminavo nel parco, ascoltando musica. Ad un certo punto ho sentito un improvviso, fortissimo senso di stanchezza in tutto il corpo. Le gambe non reggevano più il mio peso, avevo il cuore che andava a tremila, l'affanno e le vertigini. Ho subito pensato ad un attacco d'ansia, che conosco bene, ma mi sono spaventata lo stesso, perchè quello era proprio forte forte....
Mi sono seduta sulla prima panchina che ho trovato, aspettando che passasse.
Sulla stessa panchina, c'era seduta una donna, sicuramente adulta, anche se di un'età indefinibile.
Improvvisamente si è voltata verso di me, mi ha guardata per un istante infinito, per darmi tempo e modo di entrare in quegli occhi e scegliere se scappare o restare, e mi ha detto "Stavolta non hai scelta. Devi ascoltarmi".
Non era una richiesta, era un'affermazione, anche piuttosto perentoria e io ho fatto cenno di si con la testa, con un leggero senso di fastidio, misto ad una forte curiosità.
"Sai", mi ha detto, "Io non ho avuto un'infanzia e un'adolescenza facili, anzi. Niente nella mia vita è stato facile. Tutt'ora lo è meno che mai. Ma me la sono sempre cavata, grazie al "c'è chi sta peggio", che ha sempre fatto il suo sporco lavoro di effetto placebo.
Ora come ora, invece, ho l'assoluta consapevolezza che non c'è effetto placebo che tenga, perchè il "c'è chi sta peggio" è una tristissima realtà. Ma non è la mia.
La mia realtà è che sono stanca, incazzata, triste, furiosa, avvilita. E tutta questa ridda di brutti sentimenti, dei quali, credimi, faccio sempre più fatica a non diventare preda, fa si che io mi senta sola. Tante volte.
Tutte le volte in cui mi sveglio con la consapevolezza di dover andare oltre quello che potrei essere, rifugiandomi in quello che sono.
Tutte le volte in cui il senso di fallimento mi aggredisce alle spalle, con cattiveria, con violenza. E che faccio sempre più fatica a combattere.
Tutte le volte in cui vedo il mio corpo che cambia con il passare del tempo e non c'è nessuno ad accarezzare i solchi delle mie rughe".
"Vedi", mi ha detto, "io sono una con la nuca sempre pronta a ricevere la mazzata. E non dovrebbe essere così. Una mazzata quando arriva deve fare effetto mazzata. Deve far male. A volte più per la sorpresa che per il dolore in sè. Io, invece, la mazzata ho imparato a percepirla un pò prima che arrivi e ad essere in qualche modo preparata. Ma il colpo lo sento ugualmente. E fa ugualmente male. Non c'è percezione o preparazione che tenga. E questo comincia a farmi paura. E mi fa sentire sola."
Non mi era tutto perfettamente chiaro, ma mi sono accorta che mi interessava ascoltarla, che mi piaceva. E ho lasciato che continuasse. E lei ha continuato il suo monologo. Perchè io non ho mai detto una sola parola. Non ho voluto interromperla. Mai. Se l'avessi fatto, mi sarebbe sembrato quasi di mancarle di rispetto.
"Quello che vorrei davvero, è essere capita. Capita, non compatita. So quanto sia sottile il confine fra le due cose, ma so anche che la volontà, quando c'è, sa scegliere.
Vorrei che, prima della preoccupazione, ci fosse la piena e consapevole conoscenza per quello che vivo e per come lo vivo. E poi, semmai, la soluzione per affrontarlo.
Vorrei che la mia proverbiale sensibilità venisse considerata un valore aggiunto, non una preoccupazione o un peso.
Vorrei che le occasioni che mi capitano non siano viste come manna dal cielo, ma come qualcosa che merito.
Vorrei che non mi si rimproverasse di non voler vedere il bicchiere mezzo pieno, soprattutto quando è evidente che è mezzo vuoto.
Vorrei che non mi si considerasse un problema, un impiccio, un peso, una preoccupazione insana, una vittima dei fallimenti miei o di quelli altrui. Non lo sono. Non sono niente di tutto questo.
Sono una che è caduta tante volte, sempre in piedi, dritta come un fuso. E che ora ha paura di cadere storta e di farsi tutto il male del mondo. Ma è solo paura. Nient'altro che questo. Ed è lasciare che questa paura prenda il sopravvento, che mi fa davvero paura."
Quest'ultima frase l'ha detta sorridendo. Di un sorriso abituato più agli occhi che al cuore.
Mi ha guardata, con un misto di tenerezza e dignità. Si è alzata e si è allontanata. Con la testa alta e con la schiena dritta come un fuso. E senza mai voltarsi indietro.
Non so chi sia questa donna. Non so neanche il suo nome. Non gliel'ho chiesto. Non le ho chiesto mai nulla. L'ho ascoltata e basta.
Sono rimasta ancora un pò su quella panchina.
Poi mi sono alzata. Sono tornata a casa. E mi sono guardata allo specchio.
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