Ogni tanto litigo con la malinconia perchè, nel momento in cui bussa alla mia testa, magari non ho voglia di ripensare al passato. Ma siccome la conosco bene so che busserà all'infinito, quindi, pur di non sentirmela col fiato sul collo, cedo e le apro la porta dei ricordi. Oggi è toccato al salone della vecchia casa di Napoli. Quella enorme. L'unica in cui noi sei fratelli e sorelle d'Urso abbiamo vissuto insieme. Per un tempo troppo breve.
Ho chiuso gli occhi, sono rientrata in quel salone ed ho toccato tutto. Non accarezzato, ma toccato.
Il lungo divano di velluto verde. Il pianoforte. La sedia stile "Savonarola". Il paravento antico. Il mobile cinese. Il lungo tavolo di marmo. Il lungo mobile che faceva pendant e conteneva i servizi da tavola. Quelli buoni. Quelli di Natale e Capodanno. Le piastrelle del pavimento rotte (allarme perfetto per sventare i tentativi di entrare nel salone, quando le porte erano chiuse, cioè quasi sempre...). La poltrona estendibile di papà. E il mobile bar. Il mobile più surreale che abbia mai visto. Un rettangolo marrone, lungo un paio di metri, che si apriva dall'alto e diviso in due scomparti. In uno c'era il giradischi (sul cui braccetto c'era quasi sempre una gomma per cancellare attaccata con lo scoth, che faceva da contrappeso, perchè la puntina non saltasse...) e nell'altro varie bottiglie di superalcolici (China Martini, Amaretto di Saronno, Liquore Strega, Fernet Branca, Vecchia Romagna Etichetta Nera, Biancosarti, Amaro Cora, Punt e Mes, Rabarbaro Zucca). Ovviamente, il permesso di usare il giradischi "dei grandi" poteva essere richiesto e ottenuto solo se si era abbastanza convincenti nella richiesta, che spaziava dal capriccio che avrebbe sfinito chiunque, alla preghiera, meglio se accompagnata dagli occhi da bambi triste. O per intercessione di qualche occasionale parente. O di qualche occasionale babysitter, più presente dei parenti e con più autorità. O più semplicemente, usando un pò di sana cazzimma e battendo sul tempo uno degli altri fratelli.
E poi c'era la libreria a muro, nella quale, in mezzo ai libri di diritto e codici civili e penali, c'erano le letture del sapere.
C'era l'Enciclopedia della Donna, che poteva essere letta solo dalle femmine, come se nascondesse chissà quali segreti preclusi ai maschi e che credo li incuriosisse più di un vietatissimo fumetto porno.
E c'era l'Enciclopedia degli Animali. Quella era consentita a tutti, anzi, se il trauma non mi inganna, direi imposta a tutti. Credo di averla letta un numero di volte imprecisato. Eppure, non me ne ricordo una sola parola. Quello che ricordo molto bene, invece, era che il volume dalla L alla N aveva in copertina uno strano animale, che io e mio fratello Alessandro chiamavamo il "grugo". In realtà era un lemure. Ma a noi sembrava un grugo. Non sapendo che razza di bestia fosse e non avendolo mai visto da nessun'altra parte, il nome gli stava a pennello. E ogni volta che lo guardavamo ridevamo, come se quel momento di beata, fanciullesca ignoranza, fosse un segreto solo nostro. Per noi era il grugo. E lo è ancora oggi, che ancora ce lo ricordiamo. E ancora sorridiamo. Per fortuna.
Che descrizione perfetta !! Mi è sembrato di essere lì ed osservare ogni cosa che descrivevi :) buon inizio settimana Dany
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